sabato 24 gennaio 2015

Marchette e censure

Non è la prima volta che mi succede: è frequente che, quando intervisti un autore fresco fresco di pubblicazione, magari giovane, magari alle prime armi, la casa editrice funga da balia e rivendichi la pretesa di esercitare una qualche forma di controllo su ciò che il poveretto in questione rilascia detto o scritto in giro per il grande mare mediatico. E' successo anche questa volta, con un'intervista per il progetto culturale col quale collaboro gratuitamente e che ho contribuito a fondare, 3 anni fa. C'è un sito, c'è uno sfogliabile mensile, certo, nulla di questo è registrato in tribunale con regolare atto a causa di difficoltà economiche che mi piacerebbe tanto non avere, per poter ostentare un prodotto editoriale integro e "regolare". Ma non è così, fatto che peraltro non va contro a nessuna regola: il sito non supera la soglia definita di visite, dunque non ha l'obbligo di registrazione. Ma questo, la gente non lo sa. Non lo può sapere, e non è nemmeno un dovere. E' così e basta, prendiamone atto.
Fatta questa premessa, torno a raccontare di un'intervista realizzata in circa 35 minuti di telefonata, effettuata con il vivavoce e registrata. Dopo, accuratamente sbobinata, operazione lunga e complessa che ha previsto vari rewind e numerose ricerche online per la verifica di nomi, fatti, date. Nulla di improvvisato, raccimolato in breve tempo, fatto svogliatamente. No, è stato anzi un lavoro divertente, interessante e stimolante, a confermare la bellezza di un mestiere che ti porta ogni volta a scoprire cose e persone che altrimenti non avresti nemmeno sfiorato. 
Ovvia considerazione: il parlato non è lo scritto, dunque nella trascrizione di una registrazione vocale è stato necessario rimodellare alcune frasi, eliminare gli anacoluti che senza volere erano scappati (non accuso nessuno: l'anacoluto è il principe delle conversazioni orali, soprattutto se si sta improvvisando, e durante un'intervista si improvvisa per forza, trattandosi di domande a cui rispondere), sistemare le risposte in modo che risultassero comprensibili e scorrevoli alla lettura. Faccio questo mestiere da qualche anno, ormai, e dedico alla scrittura gran parte della mia vita: credo dunque di avere tutte le competenze per sbobinare in modo corretto, senza apportare modifiche contenutistiche di sorta, un'intervista registrata. 
Detto ciò, tornando alla mia intervistata, è successo anche questa volta che la ragazza, giovane e non ancora rodata, mi abbia chiesto con un filo di imbarazzo se potevo inviarle il file in modo tale che potesse essere controllato dalla casa editrice. Piccola punta di fastidio: ma non importa, passiamo oltre, mi serve questa intervista, e sono in ritardo sui tempi di consegna. Facciamo pure vedere che non ho scritto nulla di male, anzi è carina questa intervista, emerge un carattere giovane e fresco di questa ragazza, credo se lo meriti, e starà beme sul giornale. Che poi, è stato palese fin da subito che questa procedura facesse parte di un copione messo su dalla casa editrice e non dall'intervistata.
Intervistata che però ha ben pensato, una volta ricevuto il mio file, di leggerlo e non fermarsi qui, sentendosi in diritto di apportare delle modifiche con la scusa del "parlo proprio male". No che non parli male, ragazza, parli come tutti, e la cosa bella di queste interviste è proprio trascrivere il tono fresco e spontaneo del dialogo orale. A che servono quindi le parentesi, se mi stai rispondendo a voce? Eppure tu hai inserito delle parentesi. A che servono poi avverbi che sì, è vero, in un testo scritto useremmo per renderlo più pomposo, ma che proprio per questo motivo appesantiscono le risposte dell'intervista? Ma tu ci hai deliberatamente infilato anche quelli. Non parliamo, infine, delle aggiustatine contenutistiche che hanno previsto l'arricchimento con particolari che a mente non ti ricordavi, quando mi hai risposto, ma che non erano nemmeno necessari, e il solo fatto che tu li abbia messi indica coda di paglia e, di nuovo, appesantisce la lettura. Hai addirittura modificato una frase carina e spontanea per citare il tuo fidanzato, figura che non era trasparsa dalla nostra chiacchierata telefonica perché totalmente irrilevante ai fini dell'intervista. Bastava ciò che mi avevi detto, e ritengo che il mio italiano fosse già egregio, tant'è che le tue correzioni le ho di nuovo smussate, perché non mi piacevano, e perché la firma in fondo al pezzo sarà la mia.
Ma non finisce qui, perché poi è arrivata la versione definitiva vagliata dalla casa editrice. Una vera e propria fiera della marchetta e della censura, laddove sono comparsi interi paragrafi di nomi, fatti e circostanze nemmeno citate nelle risposte originali. Sono spariti nomi di persone, il testo si è allungato in modo spropositato, improvvisamente zeppo di retoriche e interiezioni da finto parlato che gridano lontano miglia "siamo stati inventati dalla casa editrice". Questo accade per tutta la parte che, ovviamente, riguarda l'editore, parte che prima occupava un tot di spazio, e che ora ne occupa praticamente il doppio. E se io avessi avuto dei limiti di battute? Ma è l'ultimo dei problemi, perché prima delle battute si aprono scenari fatti di dignità del giornalista, brutalmente cancellato e reso inutile nella sua funzione di mediatore tra la fonte e il pubblico. Non c'è propblema, ci pensa l'editore. Peccato non sia quello il suo mestiere. L'editore modifica a suo piacimento evidenziando quanto è bravo e cosa ha fatto, citando titoli e plasmando una risposta altrimenti immediata e spontanea con paroloni e frasi che una ragazza alle prime armi non avrebbe. E che infatti non aveva. ma non è certo un suo difetto: era spontanea, era lei, era la verità. Invece mi ritrovo con una marchetta, un visto di censura che brucia di fastidio avendomi impedito di scrivere e pubblicare ciò che avevo ottenuto e ritenevo valido. Per chiudere, c'è tutta la parte che, al di là dei contenuti aggiunti, ha lavorato sullo scritto, sulla forma, ritenendo di correggere e, evidentemente, migliorare un testo che, non per dire, ma lo faccio di mestiere, avevo già lavorato e, lo so per certo, era corretto. Il testo di ritorno, marchettato, censurato e corretto, era zeppo di refusi, sintomo di un lavoro superficiale e frettoloso. Io non lascio mai refusi quando invio a qualcuno: controllo e ricontrollo. Forse uno può scappare, ma non tralascio articoli, pronomi, elementi della frase palesemente derivati da un pezzettino cancellato che sono stati dimenticati. Oltre ai refusi, siamo al parossismo della beffa, interi pezzetti con una forma logico-sintattica stentata e di certo non adeguata al taglio del testo, ovvero un'intervista presentata come chiacchierata. 
Mi domando, ancora una volta, che senso abbia tutto questo. Esercitare un controllo su un'attività che dovrebbe essere libera e smarcata. Permettersi di rifare il lavoro che io sono legittimata a fare in virtù non solo dell'esperienza ma di un'abilitazione ottenuta secondo legge, per giunta rendendolo peggiore. 
Continuo a farmi domande e trovo ipotetiche risposte, per esempio mi dico che la prossima volta, alla richiesta di visto da parte dell'editore, potrei dire no, guarda, io sono colei che firma il testo, quindi decido io cosa viene scritto. Potrei evitare di rimandare i testi perché la gente che intervisto, presa da ansie e paranoie, si vuole riguardare ciò che ha detto e lo corregge, e lo arricchisce, in totale autonomia dal mio lavoro. Vorrei sottolineare che c'è lavoro prima di un'intervista, c'è ricerca, c'è lo studio, c'è l'elaborazione delle domande; poi c'è la parte dell'intervista, banco di prova delle domande e campo di improvvisazione, plasmandosi l'andamento della chiacchierata a seconda del contenuto e del percorso di ogni risposta. Nel caso delle registrate, c'è poi la messa in forma scritta. 
Ne sono certa: ci sono persone che non sanno. Ma non sanno perché non vogliono sapere, forti di una presunzione che li autorizza a schiacciare il lavoro altrui senza nemmeno rendersene conto. La stessa presunzione che giustifica atti scellerati come questo in virtù del fatto che il mio progetto non è una testata registrata, e magari non ha una tiratura da sballo, e non si vende in edicola e non lo puoi sventolare davanti agli amici orgoglioso di essere stato intervistato. Da un giornalista, perché c'è un giornalista dietro alle interviste, non si tratta di parole accozzate a promuovere marchette e no, non puoi cambiare ciò che hai detto o modificare i contenuti, perché allora annulli il mio lavoro, e gli conferisci stima e dignità pari a zero.

venerdì 23 gennaio 2015

Tornare: la prima contrainte dell'anno

Succede ogni anno, sarà colpa della sindrome da propositi che si insinua tra le pagine delle agende nuove i primi giorni di gennaio, sarà il clima, forse il freddo che invita a passare più tempo tra le mura domestiche, il che induce a riflettere e intravedere cambiamenti, novità, sarà che di questi tempi ricorre l'anniversario del mio tesseramento all'Ordine dei giornalisti, e ogni volta il senso di appartenenza alla categoria rinvigorisce in me la voglia di fare cose belle, e farle bene. Saranno questi o altri fattori, ma è successo ancora: un anno fa mi ero ripromessa di riattivare questo blog, e l'operazione è miseramente fallita a causa della consueta centrifuga in cui i fatti della vita privata e professionale mi hanno prosciugata.
E' passato un anno, ma in barba a questa ennesima contrainte che mi sbeffeggia quasi additando la mia audacia come gesto suicida che segnerà l'ennesimo fallimento, io ci riprovo: scrivo sul blog, scrivo il blog. Lo creo, ci infilo dentro le cose che ho pensato e forse sarebbe meglio non lasciassi scorrere via, perché un ancoraggio ogni tanto serve, a rimarcare le cose, a fare da segnalibro per riprendere da dove si era lasciata la lettura. Soprattutto se l'intenzione è ancora quella di combattere in modo donchisciottesco ma convinto contro le contrainte del mondo, gli ostacoli, gli impedimenti, le regole che bloccano ma al contempo liberano energie, idee e creatività.
L'intenzione è ancora quella, precisa, nitida e necessaria. Ed è gennaio: ripartiamo.